mercoledì 1 febbraio 2012

UNA SERA AL CINEMATOGRAFO: Salvate il soldato Ryan, 1998

Omaha 6 Giugno 1944,
le truppe americane si preparano allo sbarco nelle terre normanne al fine di liberare l'Europa dal reich e poter aprire, quindi,  ristoranti McDonald al posto dei campi di concentramento. Le truppe americane son pompatissime mentre le scialuppe raggiungono la riva: i nostri eroi sono visibilmente pieni di amor patrio (facile l'amor patrio quando vai a fare caciara in casa d'altri), coraggio ed imodium (per evitare il logico prolasso intestinale che un'operazione così scellerata può causare). Le truppe infine sbarcano e nonostante qualche, logica, difficoltà iniziale (tipo qualche migliaio di morti) il trionfo degli USA sul reich è cosa semplice ed immediata. Ovviamente parte subito l'after party americano e là dove prima infuriava una battaglia disumana ora sorge il bivacco scorreggione e ciancicone tipico dei culi a stelle e strisce. Tuttavia un tragico evento piomba sulla storia rovinando la festa alle guasconissime truppe americane: il sergente Marshall apprende la notizia della morte dei tre fratelli Ryan ( potevano anche starsene a casa, n.d.a.) e che il quarto fratello, James Francis Ryan, è stato paracadutato proprio in Normandia ma oltre le linee nemiche (eh, poteva starsene a casa anche lui, n.d.a.). Pensando alla madre dei quattro fratelli, già distrutta per la perdita di tre figli, il coraggiosissimo generale decide d'inviare un manipolo di 8 fessi a salvare l'ultimo dei 4 e al grido di "armiamoci e partite" li invia tra le fauci dei nazisti. Gli 8 vanno incontro a svariate peripezie e, morendo uno dopo l'altro (com'è anche giusto che sia), riescono a ritrovare il soldato Ryan che in realtà è sempre vivo e vegeto, gode di ottima salute, è sempre con la sua compagnia, non è prigioniero dei tedeschi e quando il comandante della spedizione inviata per salvarlo gli ordina di andare via con loro lui lo manda in culo senza ritegno dicendo che preferisce restare con la sua compagnia a combattere i nazisti per la gloria, la patria e le multinazionali del tabacco (l'America, che paese di merda).
Oltre che svelare una certa idiozia strategica dell'esercito statunitense (perdere 8 uomini per salvarne 1, che puttanata pietista), il film ci pone di fronte alla tragica incapacità del regista (già manifesta nel più credibile "Schindler's list"), Steven Spielberg, di accettare il fatto che i nazisti abbian ingabbiato, trucidato e interrato 6 milioni d'ebrei come lui, contrapponendo alla cattiveria tedesca, che nel film viene lasciata intendere come innata, il patriottismo ingiustificato degli stati uniti (il nobile gesto di sacrificare 8 soldati per risparmiare altre lacrime ad una povera mammina già lacerata dalla morte di tre figli),  facendo passare per giustificabili le uccisioni spietate dei soldati tedeschi: solitamente i vari omicidi di militari tedeschi vengono conditi da battutine più degne di un film collegiale che di uno di guerra, le uccisioni avvengono,  svariate volte durante lo svolgimento della pellicola quando il soldato tedesco si è già arreso e con l'arma a terra, dando per scontato che se lo merita in quanto tedesco e cattivo."La storia la fanno i vincitori, non i vinti" sosteneva Bertrand Russel e in questo film, la verità insita in tale affermazione, è più che palese: i tedeschi, in quanto perdenti, vengono quindi condannati e giudicati come imperdonabili dalla storia per l'olocausto, gli americani, nati dal peggio dell'Europa, che hanno sterminato milioni d'indiani per poi rinchiudere i superstiti nelle riserve (cioè dei campi di concentramento) per appropriarsi della loro terra in quanto vincitori vengono invece eretti come popolo (popolo? quale popolo? un popolo senza storia non è un popolo) salvatore ed amico. Preferivamo Spielberg quando girava film del cazzo per bimbi delle elementari e non questa versione di culone risentito per cose che neanche ha vissuto in prima persona. Stupido yankee ignorante!

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